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Semiotropie. Eredità di Barthes
A cura di Giuseppe Crivella




Incontri e scontri con Roland Barthes
di Renato Barilli

16 febbraio 2016




I miei rapporti con Roland Barthes cominciano, fine anni ’50, nel segno dell’ammirazione e del rispetto, procuratimi da suoi contributi quali Le degré zéro de l’écriture, e soprattutto dal saggio Littérature objectale, che erano un modo intelligente e vivace di accompagnare l’emergere del Nouveau Roman, e in particolar modo della parte rilevante tenuta in esso da Robbe-Grillet, da cui ero affascinato. Barthes coglieva alla perfezione quello che poi per me sarebbe stato un cavallo di battaglia lungo la mia carriera di critico militante, volto in primis a individuare la differenza tra le avanguardie del primo e del secondo Novecento, al di là dello stesso fenomeno della narrativa francese, ma con pronta estensione ad ogni altro campo, a cominciare da quello delle arti visive, in cui in definitiva apparivo coinvolto in via più diretta.

In ogni ambito dello sperimentalismo, ovvero di una neoavanguardia, si doveva praticare quella che Alfredo Giuliani, all’atto di teorizzare il fenomeno di punta dei Novissimi, avrebbe definito una “riduzione dell’io”, il soggetto doveva farsi magro magro, fino al punto di apparire addirittura scomparso, a vantaggio della presenza degli oggetti. Sartre, a nome della generazione precedente, era stato il profeta di questa svolta epocale, quando, in uno dei saggi poi raccolti nelle varie tappe di Situations, aveva dichiarato “eccoci liberati di Proust”, oppure aveva lodato quella che per lui, e per tutti noi al suo seguito, appariva come l’idea portante di Husserl e di tutta la fenomenologia, l’intenzionalità, che appunto voleva dire spostare l’attenzione dal soggetto e dalla sua interiorità riversandole sulle cose, secondo la formula che proprio Robbe-Grillet stava proclamando con tono autoritario, “Les choses sont là”, cui, nelle arti visive, avrebbero fatto eco i vari movimenti in sequenza quali il Nouveau Réalisme francese, il New Dada e poi la Pop Art a prevalente matrice statunitense.

È vero che già allora la pur felice proclamazione di Barthes a favore di questo spirito riduttivo aveva qualche ambiguità. Riduzione o addirittura cancellazione? La prima tesi apparteneva a noi fenomenologi, che ritenevamo, con Sartre e Merleau-Ponty, che in realtà un indice di soggettività, per quanto minimizzato, non poteva uscire di scena, anzi quel suo farsi piccolo piccolo gli permetteva di rendersi esteso e penetrante. In fondo, il fondatore dei Novissimi, il già ricordato Giuliani, si affrettava ad aggiungere che la riduzione dell’io non doveva rimanere fine a se stessa ma dare adito a un leopardiano “accrescimento di vitalità”.

Fare un passo indietro, ma per abbracciare una più larga fetta di orizzonte. Invece Barthes pareva auspicare una cancellazione, il che, ambiguamente, poteva aprire la strada a letture di marxismo “impegnato”, che collegavano quella scomparsa dell’io all’avvento del neocapitalismo e del suo afflato spersonalizzante, con il dio merce chiamato a vincere su ogni altro interesse. Dietro questa interpretazione etico-politica, era pronta ad affacciarsi anche quella di carattere epistemologico. Insomma, fenomenologia o positivismo logico, alla Carnap e alla Wittgenstein? Era il caso di proclamare una tautologia: le cose sono le cose, punto e basta?

Purtroppo Barthes, in definitiva felicemente ambiguo nella sua fase iniziale, e in possesso di un linguaggio critico sempre deliziosamente fresco, capace di trovare la parola giusta al momento giusto, trasportato dal suo stesso bisogno di fare comunque ordine e pulizia nel suo dettato, andava progressivamente a infilarsi nel buco stretto della semiotica, scegliendola, a mio avviso inopportunamente, nella versione “dura e pura” sviluppata dal danese Hjelmslev, del tutto succube proprio della lezione di Carnap e del positivismo logico. Io magari non ero del tutto alieno dal riconoscere i buoni uffici della semiotica, ma li ricercavo, semmai, nelle concezioni larghe e generose del Saussure, dove sopravviveva malgrado tutto la buona dialettica di derivazione fenomenologia, dove cioè il significante doveva sempre misurarsi col termine opposto del significato, e il sistema codificato della lingua manteneva la via di fuga affidata all’atto individualista e liberatorio della parole.

Invece Barthes, ahimè, adottava la via massacrante stabilita appunto da Hjelmslev e del connesso trionfo del formalismo, con la suddivisione dei vari piani di indagine, tra forma e contenuto, ma entrambi parcellizzati, ridotti a scorrere in parallelo e a non incontrarsi. Il che avveniva perché Hjelmsev sceglieva come sistema-guida, cui ogni altro ambito espressivo doveva conformarsi, quello della lingua, con le sue proprietà difficilmente esportabili in altri territori: la presenza di una serie ridotta di elementi primari, le lettere, le quali inoltre si combinano tra loro in modi rigidi e prefissati. Sistema certo di grande razionalità ed efficienza, ma assai arduo da esportare.

Eppure, il neofita Barthes ci si provò, con zelo puntiglioso, andando ad applicare questa formula in campi che viceversa le erano avversi, come in effetti io cominciai a rinfacciargli, mutando le ragioni di deferente assenso fin lì intrattenute, in motivi di disputa e di polemica. Barthes infatti andava a rilanciare la vecchia retorica, e fin qui l’accordo poteva rimanere in piedi; anch’io, dalla metà dei ’60, avvertivo l’opportunità di riaccreditare la vecchia signora, ma proprio per la sua predicazione a favore di vie di interpretazione aperte, informali, probabiliste, tali da negare in partenza il metodo analitico di specie hjemsleviana. In altre parole, la retorica da me amata era quella di cui ci parlava il belga Charles Perelman, provenendo da studi giuridici, e dunque ricordandoci che quello strumento si può applicare utilmente solo là dove viene esclusa la dimostrazione rigorosa e analitica.

Le figure retoriche, secondo una simile concezione, vengono a rimorchio. Invece, sempre nel Belgio, era nata la Scuola di Liegi, capeggiata da Philippe Minguet, detta anche Gruppo µ, che procedeva a una minuziosa catalogazione di tutti i tropi possibili. Ricordo che io andai a parlare a casa loro, riscontrando proprio una sostanziale differenza di metodi, poi andai a Bruxelles, invitato dallo spirito del tutto solidale di Perleman, e anche i membri di quel Gruppo vennero a sentirmi, poi concludendo che in effetti la loro non era una teoria generale di Nouvelle rhétorique, ma solo una complessa “tropologia”, proprio sulla scorta del modello barthesiano, Che poi si applicò con furore raddoppiato sul Système de la mode, e qui di nuovo io condussi una contestazione puntigliosa, sulle pagine di “Quindici”, sostenendo che il letto di Procuste o la camicia di forza dell’alfabeto, con tutte le sue cesure e frantumazioni, mal si conveniva alle esigenze fluide proprie della moda, che oltretutto rappresenta, con la sua sfuggente indeterminatezza, i caratteri precipui di ogni sistema iconico, difficilmente segmentabile.

Ovvero, ci sono modalità espressive che per loro natura rifuggono dalle misure “discrete” e scompositive. Infatti le schiere dei semiotici, senza dubbio trascinati dalla guida carismatica di Barthes, mossero baldanzosamente alla conquista del segno iconico, ma incontrarono su quel terreno suppergiù le stesse difficoltà contro cui i loro colleghi del settore retorico erano andati a sbattere. Si può ben dire che la sconfitta dell’impresa semiotica, nella sua spinta totalizzante, ha cominciato a sperimentare gli ostacoli, le impossibilità, proprio di fronte all’ambito continuativo, sfumato, informale per eccellenza delle immagini.

Per qualche tempo i semiotici si sono rifugiati dietro l’alibi del chiedere tempo: aspettate, lasciateci provare, e vedrete che arriveremo alla conclusione, piegheremo anche il mondo delle icone alle regole impietose della glossematica hjelmseviana. Ma mi pare che da tempo si sono rassegnati a levare l’assedio a quella cittadella rivelatasi imprendibile.

Un altro punto del mio dissenso sempre più accentuato rispetto alle mosse, pur sempre affascinanti a livello linguistico, di Barthes è avvenuto sul fronte della narrativa. A un certo momento egli ha diretto la sua acribia su un racconto di Balzac, Sarrazine, ma anche in questo caso prendendo una strada sbagliata e inopportuna.

Quel racconto non è certo una delle opere migliori del grande narratore francese, che sembra essere tributario della passione del suo predecessore Stendhal per cupe storie italiane colme di delitti e male imprese, esercitati attorno a una “voce bianca”, a un castrato, secondo il barbaro uso di quei tempi per cui le donne non potevano calcare le scene, sostituite da poveri maschi sottoposti a una evirazione, per dare qualche soldo alle famiglie di provenienza, e così facendo di loro dei cantanti aggraziati. Una di queste femminelle, Zambonella, si viene a trovare al centro di un gioco di intrighi, su cui Barthes si butta con delizia, cercando di ricavarne una “grammatica” di scambi incrociati.

Si può ricordare in proposito che anche un nostro critico di grande spessore, Cesare Segre, per qualche tempo fu attratto dalla sirena semiotica nella fattispecie barthesiana e si diede quindi a ricavare la “grammatica” addirittura del Decamerone boccacciano. Ma in entrambi i casi io mi sono permesso di dire che i due partigiani di una semiotica rigida, costruita more linguae, sbagliavano l’obiettivo cui rivolgersi, sia Boccaccio sia Balzac sono grandi non certo quando abborracciano trame, in genere rubate a tradizioni precedenti, bensì quando tracciano vigorosi ritratti psicologici con precisa ambientazione nei relativi contesti sociali. La femminella amata da Sarrazine raggiunge tutta la sua rilevanza narrativa quando, ormai vecchia, compare in un salotto parigino accolta da eredi che vivono alle sue spalle e quindi devono pur rendere qualche gesto di rispetto verso quell’essere mostruoso, né uomo né donna, che compare in scena, triste ed enigmatico dominatore. Barthes, e i vari Nouveaux critiques che al suo seguito si sono infilati nelle maglie strette del sistema semiotico-linguistico, a un certo punto ne hanno avvertito con sofferenza la soffocante ristrettezza, e dunque hanno intrapreso una marcia di “anabasi”, di fuoruscita, cercando di riguadagnare un “più spirabil aere”, ma, come succede in questi casi, da un troppo di rigore e di chiusura sono passati a praticare discorsi caratterizzati invece da eccessi di indeterminatezza.

A Barthes spetta il solito merito di essere stato il primo a intraprendere questa via di fuga, se si pensa ai Fragments d’un discours amoureux, e alla Chambre claire, da lui stesa quasi in punto di morte. I vari suoi seguaci, ai tempi della prigionia semiotica, quali i pur validi Julia Kristeva e Tzvetan Todrov lo avrebbero seguito abbracciando cause umanitarie, femministe, pacifiste, scivolando cioè in discorsi improntati a quella retorica come teoria dell’argomentazione che Perelman contrapponeva ai suoi giovani connazionali, chiusi nel culto stretto della tropologia.



Renato Barilli

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